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Indice degli articoli pubblicati sul Nr. 63 Ottobre 2010

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Qualche appunto sul timballo e sartù

Carlo Bellosio


Timballo e sartù

Come ho affermato più volte su queste pagine, la cucina italiana non vanta una tradizione univoca, a somiglianza della francese, ma è il risultato della somma di infinite pratiche regionali o cittadine, sempre differenti e variate negli anni, che hanno dato origine a quelle che meglio si dovrebbero definire le ‘cucine italiane’. In questo complesso panorama alcune ricette si sono ra-dicate, per ragioni storiche o economiche, a particolari territori assurgendo in breve a loro simbolo in un processo di identificazione che si suole definire come il loro ‘marcatore culturale’.

Sotto questo aspetto, timballi e sartù sono divenuti in breve prepara-zioni legate alla tradizione gastronomica napoletana che a tutt’oggi ne con-serva religiosamente le ricette. Ma sono veramente due piatti partenopei per essere qui nati - nonostante che il nome non denunci chiare origini locali - e, se così non fosse, quando e per quali ragioni si sono qui affermati? Sarà quindi necessaria una breve indagine storica per risalire alle fonti di due pre-parazioni tra le più ricche ed elaborate della cucina partenopea accomunate, come si vedrà, da alcune singolari analogie. 
Timbale è un termine settecentesco francese ad indicare un bicchie-re di metallo a forma di campana che poggia solitamente sopra un piede cen-trale. Per analogia lo stesso nome viene dato ad uno stampo metallico cilin-drico destinato a contenere una preparazione plasmabile cotta nel forno e, per estensione alla preparazione stessa. Il Dictionnaire portativ de cuisine lo definisce nom qu’on a donné à toute espece de ragoût qu’on enferme dans un pâté et qu’on fait cuire au four. On en peut faire, & imaginer autant de façons qu’il y a de sortes de ragoûts, qui peuvent se mettre en pâte. La far-cia, costituita da quello che allora si definiva un ragoût, composta da ingre-dienti scelti di volta in volta dalla fantasia del cuoco, viene messa in una cas-sa di pasta che fodera le pareti del recipiente. Per il Timbale à l’Espagnole il cuoco francese Marin consiglia di usare una «casseruola o forma a timbal-lo». A cottura ultimata si pratica nel centro del coperchio di pasta un foro dove viene versata una salsa a base dello stesso ragoût:

Timbale à l’Espagnole
Foncez une casserole ou moule à timbale, d’une pâte à l’Espagnole. Mettez dedans cette viande, filets et ragoût que vous jugerez à propos. Le ragoût doit être bien fini et froid. Recouvrez et frottez de sain-doux. Vous lui faites prendre couleur au four & la renversez. Ensuite vous faites un petit trou au milieu & y versez de la sauce pareille à votre ragoût, et servez chaud. 

Altre volte si fodera con pasta l’interno dei timbales, vi si pone un piccione arrosto e del ragoût, si rinchiudono con altra pasta saldata lungo il bordo come per una torta, si cuociono al forno. Raffreddati si capovolgono sopra un piatto e si coprono con una salsa di vitello:

Pigeons en timbale
Echaudez de petits pigeons & les troussez comme pour une compotte. Passez-les de même avec telle garniture que vous jugerez à propos. Etant froids, faites une pâte séche avec un peu d’huile, du sain-doux, des jaunes d’œufs, un peu de sel, de l’eau, de la farine. Que la pâte soit un peu ferme. Formez-en autant d’abbaisses que de timbales. Garnissez-les de pâte en-dedans le plus proprement que vous pourrez. Mettez ensuite un pigeon & du ragoût, recouvrez avec une abbaisse de la même pâte. Soudez-la bien & pincez tout autour comme une tourte. Faites cuire au four. Etant cuits renversez vos timbales, et versez tout chauds avec un peu de blond de veau, que vous y faites entrer, si vous voulez. 

Come si può osservare, con il passare del tempo il termine timbale si riferi-sce sempre più sovente al recipiente nel quale la ricetta viene eseguita indi-pendentemente dagli ingredienti contenuti. Caratteristica comune a tutte queste preparazioni sembra essere comunque l’impiego della pasta con la quale foderare il recipiente e l’aggiunta finale di un sugo versato all’interno attraverso un foro secondo una tradizione che rimonta al Medioevo. 
In Italia fino al Seicento si è parlato di ‘pasticcio’ ma a partire dal secolo seguente, sull’onda della moda che viene d’oltralpe, si usa sempre più frequentemente il termine ‘timballo’. Sembra che a Napoli, dove troviamo le prime testimonianze, questo piatto continui ad avere particolare successo. Fondamentalmente la tecnica di base non varia ma ora il ripieno è costituito in prevalenza da maccheroni, alimento-simbolo della gastronomia locale come ci conferma il cuoco oritano Vincenzo Corrado:

Delli Timballi
Timballo di maccheroni al sugo: La pasta per i Timballi la sfogliata, o la mezza frol-la, ma senza zucchero. Cotti i Maccheroni nel brodo di Manzo, e asciugati, e fredda-ti, si mettano nella pasta bene incaciati, con quantità di denso sugo di Manzo, come salsiccie di Porco, funghi, tartufi, e presciutto, tutto trito e cotto nell’istesso sugo. Si copra tutto con altra pasta, si facci cuocere al forno, e si serva.
Di maccheroni ripieni: I Maccheroni grossi tagliati alla lunghezza di un mezzo dito si fanno quasi cuocere nel brodo di Cappone, e freddati si riempiono con farsa di carne di Vitello passata, e pesta con tartufi, midolla di Manzo, parmegiano, e gialli d’uova, e così pieni si faranno finir di cuocere in un buon sugo di carne condito di presciutto, e cervellato. Poi accomodasi nella cassa di pasta con l’istesso sugo, e parmegiano grattato, e coverti con pasta, si farà cuocere il Timballo e si servirà. 

Non mancano però numerose varianti a conferma del fatto che sono tecnica e forma a dare il nome al piatto. Così Corrado ci propone un Timballo di gnocchi alla panna, di Lagane al prosciutto, di Raviggioli vestiti, di Gnocchi alla dama, alla Pitagorica, alla Regina, alla Corradina, di Puglia, alla Milane-se ma anche, sorprendentemente, di Riso alli Tartufi, di Riso in cagnone.
In numerose alternative sembra che questa preparazione fosse nota a quel tempo anche in altre regioni italiane e non fosse appannaggio esclusivo della gastronomia napoletana. Francesco Leonardi, cuoco romano dalla va-riegata esperienza internazionale ci propone infatti un Timballo di maccaroni al prosciutto, un Timballo di lasagne ai tartufi, un Timballo di fettuccine alla svizzera, un Timballo di tagliolini alli beccafichi dove il ripieno viene posto direttamente in una casseruola imburrata e spolverizzata con pane grattugiato invece che foderata con pasta sfoglia. Qualche anno più tardi il conterraneo Vincenzo Agnoletti, attivo alla corte parmense di Maria Luigia, ripropone una serie di timballi, tutti a base di riso, cotti nel forno in una casseruola semplicemente imburrata, con al centro un saporito ragù di carne:

Timballo di riso alla Duchessa
Antrè. Quando avrete passato sul fuoco il Riso con butirro, o con midollo, bagnatelo poco per volta con del buon brodo bianco, conditelo giustamente con sale, pepe pe-sto, e noce moscata; indi fatelo cuocere, che resti ben denso, levatelo dal fuoco, met-teteci cinque oncie di parmegiano grattato, ed un poco di cannella pesta; e farete il Timballo come si è già detto di quello all’Italiana di grasso, ponendoci nel centro un buon ragù al bianco di animelle, o di piccioni, o altri; finite poscia il Timballo, fatelo cuocere, e servitelo con sopra un poco di sugo chiaro. 

seguito da Giovanni Vialardi attivo presso la corte dei Savoia con la Timbal-la di maccheroni alla savoiarda, la Timballa di maccheroni farcita all’antica, la Timballa di maccheroni decorata alla napoletana, la Timballa di macche-roni alla sarda, la Timballa di lasagne alla genovese e, sempre in ambiente piemontese, da Francesco Chapusot con il Timballo di tagliatelli alla Mon-tglas. 
Se ritorniamo ora a Napoli, qui il timballo si identifica ormai con la fantasiosa gastronomia cittadina. Il Timpallo di maccheroni dell’autore de La cucina casereccia è preparato secondo la tradizione: pasta frolla zucche-rata per foderare la casseruola, il ripieno di maccheroni lessati in brodo posti a strati alterni con parmigiano grattugiato o caciocavallo, ragù di polpettine di vitello o pollo, fette di prosciutto, salsicce, fegatelli, uova non nate. Non dissimile il Timpano di maccheroni con pasta e, in alternativa, il Timpano di maccheroni senza pasta di Ippolito Cavalcanti dove strati di maccheroni si alternano a cervellate, fegatini, petti di pollo, polpettine, bracioline, piselli, funghi, fette di mozzarella, uova sode, fette di prosciutto. 
Un’evoluzione simile ha avuto, nei secoli, il termine ‘sartù’. Anche in questo caso si tratterebbe, secondo l’opinione prevalente, di un francesi-smo (surtout), in quanto destinato a trionfare, quale piatto monumentale, ‘sopra tutto’ cioè ‘sopra gli altri piatti’, al centro della tavola. Nel Settecen-to, in Francia, il termine surtout definisce all’inizio un grande trionfo d’argento, sovente a forma di zuppiera, appoggiato sopra una base dalla qua-le partono numerosi bracci che di sera sostengono le candele oltre ad alcuni contenitori per sale, pepe e spezie, ampolle per olio e aceto, piccoli vassoi di frutta e gelatine. Oggetto di grande pregio, era appannaggio della grande no-biltà ed aveva un ruolo sia decorativo che funzionale. E’ probabile quindi che, lungo il percorso da Parigi a Napoli, oltre a subire una deformazione lessicale (da surtout a sartù) questo termine abbia acquisito una differente valenza semantica per indicare semplicemente un piatto ricco e sontuoso. Tesi che appare comunque in contrasto con i disegni posti in chiusura a Il cuoco di buon gusto di Vincenzo Corrado dove, al primo servizio solamente terrine, oglie, lavabicchieri e rinfrescatoi sovrastano per dimensioni i piatti da portata, compresi quelli che contengono, di volta in volta, un Sortù d’animelle alla moda, un Sortù moderno all’inglese o un Sortù di gnocchi ripieni al vitello. 
Nella tradizione francese, là dove il termine sembra comunque avere origine, il surtout è definito espèce de ragoût qu’on fait, tant en gras que en maigre mentre dalle ricette apprendiamo che si tratta di una farcia composta da carne di cappone, lardo, grasso di manzo, prezzemolo, funghi, sale e pe-pe, spezie, torli d’uovo, mollica di pane, il tutto pestato nel mortaio, posto in una casseruola praticando un foro al centro per inumidirlo con un saporito ragoût. 
In breve tempo questo termine si fa conoscere anche in Italia dove il ripieno più comune è rappresentato dal riso bollito condito in varie maniere, posto in una forma imburrata e cotto al forno:

Sortù di riso alla sultana
Antré: Quando averete cotto il riso come il precedente, tiratelo indietro dal fuoco, metteteci otto, o dieci rossi d’uova crudi, mescolate bene finchè è caldo. Allorchè sarà freddo aggiungeteci tre pugni di parmigiano grattato, mescolate ancora. Prende-te il piatto che volete servire, dirizzateci con il riso il Sortù a guisa di un Pasticcio con un buon Ragù nel mezzo di vostro genio. Vedete l’Articolo dei Ragù Tom. IV, cap. I, indorate tutto all’intorno d’uovo sbattuto, e spolverizzate di parmigiano grat-tato; fategli prendere un bel colore dorato ad un forno assai caldo, e servite con un poco di Culì di tartufi intorno al bordo del piatto, e sopra il Sortù. Se lo volete fare in una forma di rame, ungete questa di butirro, metteteci il riso finchè è caldo, avendo attenzione di premere acciò entri in tutti gli angoli, metteteci in mezzo il Ragù, co-prite col resto del riso, appianate sopra col coltello; fate raffreddare, indi scaldate la forma nell’acqua bollente, rivoltatela sopra il piatto che volete servire, che vada giu-sta nel mezzo, indorate con uovo sbattuto, spolverizzate di parmigiano grattato, fate prendere un bel colore ad un forno assai caldo, e servite con un poco di culì intorno il bordo del piatto. 

A Napoli la ricetta si presenta leggermente modificata anche se non perde le sue caratteristiche di base. Il fantasioso Ippolito Cavalcanti, cuoco dilettante di nobile schiatta, ci offre una sua interpretazione dello stesso piatto:

Sartù di riso
Prendi un rotolo e mezzo di riso, ma che sia di quello forte, lo lesserai nel brodo chiaro, ed in mancanza anche nell’acqua, sia pure per economia, perché vale lo stes-so. Quando il riso sarà cotto, ma non scotto, ci porrai un terzo, ossia once undici di parmeggiano o caciocavallo, ed un pane di butiro (purchè non l’avrai cotto nel bro-do), ci farai un battuto di dodici ovi, e mescolerai tutto ben bene: indi farai raffred-dare questa composizione, e poscia prenderai la cassa, facendoci una inverniciata di strutto con una uguale impelliciata di pan grattato, poscia ci porrai la metà del riso già intiepidito, e con una mescola leggiermente lo adatterai facendoci un concavo nel mezzo, ove porrai il solito raguncino che più volte ti ho detto per i timpani. Al di sopra ci porrai l’altra metà del riso, e con le mani l’accomoderai in modo che vada tutto ben incassato, facendoci al di sopra una ingranita di pan grattato con de’pezzettini di strutto. Gli darai la cottura come al timpano con la pasta, facendo anche un buco nel mezzo come a quello, versandoci uno o due coppini di sugo. 

Il richiamo di Cavalcanti ai ‘timpani’ non è certamente casuale. Più volte, nel corso della presente ricerca, ci siamo chiesti se esistesse e, in caso affer-mativo, quale fosse la differenza tra timpano e sartù. Saremmo tentati di af-fermare che il timpano - confezionato con o senza pasta frolla - veniva im-bottito di maccheroni e che il sartù era preparato con riso. Un rapido control-lo permette di escludere questa interpretazione. Già alla seconda metà del Settecento Vincenzo Corrado, in piena libertà, aveva variato a piacimento la formula canonica proponendo un timballo ripieno di Gnocchi alla panna, di polenta o di raviggioli ma anche di Riso ai tartufi o al cagnone e, parallela-mente, un Sartù alla moda ripieno di tagliolini, animelle, parmigiano, tuorli d’uova e tartufi. Lo stesso Agnoletti parla indifferentemente di Timballo di riso all’italiana e di Sortù di riso in tutti i modi dove le due ricette sono pra-ticamente uguali con l’unica differenza che il primo viene cotto in una casse-ruola e il secondo, a forma di cupola dorata con torli d’uova e parmigiano, in un piatto posto al forno e soggiunge: «[Il sortù] è una vivanda formata per lo più ad uso di cuppoli, o in altra forma nel piatto, che si deve servire, si fanno i sortù di molte composizioni, e specialmente di riso, di maccaroni, di fedelini ec. come vedrete ai loro articoli particolari». La farcia può essere costituita quindi indifferentemente da pasta o riso ma anche di altri alimenti, varia solo il recipiente e, in conseguenza, il nome della preparazione. 
A distanza di qualche secolo, cosa rimane oggi a Napoli di queste due preparazioni e quale senso dare al loro nome? Nemmeno il ricettario di Jeanne Carola Francesconi contribuisce a fare chiarezza sull’argomento. Alla voce sartù spiega che si tratta di un «timpano di riso ripieno di fegatini di pollo, di uova, di latticini, ecc.» mentre definisce il timpano semplicemente «un timballo» senza spingersi oltre. Tra i sartù propone cinque alternative tutte a base di riso mentre prepara il timpano (o timballo) alternativamente con maccheroni, ziti o rigatoni ma anche con melanzane, scamorze o pepe-roni. Dove sta allora la soluzione del problema? Oppure si tratta di un falso problema in quanto sovente l’evoluzione di un piatto sfugge ad ogni logica razionale e percorre vie tortuose e inattese per sfociare in soluzioni inattese? 

Referenze iconografiche
p. 82: Giovanni Vialardi, Trattato di cucina, Torino, Favale, 1854, Timballe, vols-au-vent e uova.
p. 86: Giovanni Nelli, Il re dei cuochi, Milano, Legros, 1875, p. 695: Timballo di maccheroni alla lombarda.

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